CARLES CONGOST
La Mala Pintura
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OPENING: Sabato, 21 Giugno 2008 – Ore 18.00
31 Giugno 2008 – 30 Settembre 2008
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Testo di LUIGI MENEGHELLI
Lo spagnolo Carles Congost è un artista onnivoro, che accumula e divora linguaggi, temi, figure, che manipola generi, tradizioni, suggestioni con una fantasia combinatoria indiscriminata. Il suo è uno sguardo che mette tutto insieme: Ballard e X-Files, Tarantino e i Marvel Comics, Cronenberg e Romero, per raccontare l’ambiguità di ciò che ci circonda e scoprire che dietro le rassicuranti norme sociali esistono inconfessabili zone d’ombra. Basterebbe ricordare il video (del 2003, presentato in questa stessa galleria) dal titolo Tonight’s the Night, dove alle spalle dello sfacciato perbenismo di una famiglia borghese, si cela una incombente e misteriosa mutazione (di corpi, di età, di spazi) o Spaceboy (sempre del 2003), che presenta un personaggio, il quale più che vivere una storia, vive uno stato d’animo, un viaggio verso la perdita di sé, il vuoto, la morte.
Eppure la videoarte di Congost (ma anche le sue installazioni, le sue fotografie, i suoi disegni, la sua musica), non intendono produrre un discorso moralistico, far luce sul palcoscenico degli atti proibiti, penetrare l’estasi innominabile del male, ma proporre il normale, l’ovvio, l’evidente mutati di segno, divenuti incubi verosimili, falsi senza possibilità di smentite. Egli vuole proiettare la visione oltre ciò che è dato a vedere. Per cui la narrazione non è mai un processo, un progresso, una traiettoria precisa, ma un inseguimento di prospettive infinite, di traiettorie erratiche. Non è mai né lineare né panoramica: non ha un formato, ma sembra sempre in procinto di schizzare in alto, in basso, a lato, come succede nelle sequenze di un video clip. Il suo scopo, afferma lo stesso artista, “è quello di offrire una nuova prospettiva sul mondo mediante l’ampliamento di una porzione incompleta, imperfetta della realtà”.
Ma se, poi, la stessa narrazione fosse “una maschera”, una truffa sublime? Se le vicende che danno l’impressione di rincorrersi senza interruzione tra scarti temporali e spaziali non fossero altro che il tempo che è, un’immagine che è più immagini, un tempo che si contiene più volte in se stesso, un viaggio che avviene dentro l’immagine senza bisogno di simularsi nel montaggio o nell’azione? E’ quanto, in fondo, pare suggerire l’estremo video di Congost, La Mala Pintura. Il viaggio agli inferi di un losco curatore (preceduto dall’ammiccante scritta “A few months ago”) non rimanda a un reale spostamento temporale, ma a un puro artificio tipico del linguaggio cinematografico, come il materializzarsi inquietante di tre geni del “Siglo de Oro” (Murillo, Velázquez, Zurbarán) non allude al ritorno dall’abisso della storia di tre mostri sacri dell’arte, ma a “mostri” che provengono da dentro, a fantasmi che sono emanazioni soggettive del curatore. La questione è tutta interna al confronto tra passato e presente, tra tradizione della pittura e nuovi linguaggi informatici, tra immagini legate allo spessore del loro corpo e immagini immateriali, leggere, trasparenti. Un dialogo serrato, dove l’autorità della storia sembra averla vinta, distruggendo il tempo del calendario e ponendosi come fonte eterna della conoscenza. Ma ancora, come dentro ad un miraggio o ad un sogno, l’immagine torna ad avvolgersi a spirale su se stessa, quasi a voler girare intorno al significato del suo esserci. In fondo, non bisogna dimenticare che Congost si ferma più volte a interrogarsi sulla “fisionomia” dell’arte e sul suo modo di darsi a vedere: ad esempio, nel video That’s my impression (del 2001) un esperto di arte contemporanea cerca di analizzare il lavoro dell’artista secondo delle chiavi teoriche, che risultano inesorabilmente inadatte ad ogni comprensione, in Memorias de Arkaran (del 2005) viene narrata la storia di un paese di fantasia interamente abitato da artisti, con l’obiettivo però di riflettere sul loro ruolo sociale e sui rapporti tra arte e potere. In La Mala Pittura Congost pone direttamente in primo piano quelle che sono le fonti concrete dell’arte: il suo sistema, la sua storia, i suoi strumenti, i suoi luoghi. E arriva a mettere in scena anche il problema dell’”aura” sollevato da Walter Benjamin nel famoso saggio del ’36 “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. E lo fa attraverso un giovane artista (probabilmente il suo alter-ego) che legge alcuni passi del testo proprio di fronte al curatore pronto ad uccidere in nome dei “valori spagnoli tradizionali”. La finalità è quella di contrapporre all’arte caratterizzata dal valore sacrale dell’opera, alla sua considerazione come luogo di rivelazione dell’assoluto, il valore espositivo (proprio dell’epoca della riproducibilità tecnica), in virtù della quale l’arte diventa pura comunicazione, evento sociale di massa…
Si sarà capito, a questo punto, che La Mala Pintura è un video sovraccarico di soggetti, riferimenti, generi, citazioni (magari di altre citazioni). Possiamo ribadire senza tema di smentita che i vari passaggi, mutazioni, alternanze sono interni alle immagini stesse, fanno parte della loro struttura narrativa. Eppure, se ci si fa caso, si palesano anche sottili rotture, slogamenti, duplicazioni (e ri-specchiamenti), un po’ come succede nei frammenti folli generati dalla frammentazione di una sfera in Citizen Kane (Il quarto potere) di O. Welles: essi sono autentici tagli alla visione (o nella visione), ma Congost si affretta a suturarli con l’impiego simbolico di occhiali scuri, con tutta la loro capacità di suscitare il fascino del mistero, la vertigine di rapporti giocati sull’apparenza, l’ipnotico effetto sfinge. E dal momento che a portarli è sempre il sinistro curatore, da una parte ne nascondono lo sguardo e ne “chiudono” il viso, dall’altra si sovrappongono al suo vedere, diventando schermo per proiezioni angoscianti ed infere, che non sono altro che il suo “secondo” sguardo, quello più intimo, quello della sua anima oscura e dannata. Ma è l’intero video a proporre continui effetti di sostituzione, radicali illusioni, inganni palesi. Ne La Mala Pintura c’è sovrabbondanza di “morphing”, di mutazioni a vista, di vecchi trucchi riverniciati e spacciati per nuovi (effetti di effetti): a partire dagli anacronistici abbigliamenti dei protagonisti, dalle loro truccature posticce, dalle scenografie da operetta, fino ad arrivare alle immagini da “grandguignol” con tanto di vermoni osceni e voraci, a dipinti che si trasformano in bestie immonde e assassine, un po’ come in Roger Corman. Non ha certo timore del trash, Congost: anzi, se possibile, spinge sull’acceleratore, portandosi ben aldilà dei rimandi lampanti alle storiacce spy americane o ai noir di serie B. Egli cerca l’incongruo, lo smarrimento visivo assoluto, l’estetica del “come se”. Fa interamente uso di materiali di riporto, provenienti dalle più disparate fonti e sollecitazioni (televisione, cinema, fumetti, pubblicità): l’importante è che siano al contempo elevate e degradate, culturali e sottoculturali, auliche e scombinate (fuori posto). E’ così già dalle sequenze introduttive che fanno il verso ai videogiochi, ma è così anche con “il telegiornale” che interrompe la normale programmazione TV, per collegarsi con l’Accademia di Belle Arti, dove stanno accadendo fatti drammatici: il tono è quello che si usa in occasione di grandi e imprevisti disastri, ma qui la telecamera (il video nel video?) inquadra solo due poliziotti male in arnese che stanno sparando con delle “scacciacani” contro l’orrida bestia. E’ così con quel sangue spruzzato sul volto di un’allieva, che quasi ride, come fosse una modella di Yves Klein pronta a diventare opera d’arte, ma è così soprattutto con la canzone “I’m Alive!”, cantata mentre scendono i titoli di coda, e che riprende la figura di Ryan Paris, un nome falso come la marca di un profumo taroccato.
E’ vero: Congost fa incetta di elementi provenienti dai rivoli più eterogenei della scultura di massa, ma fa scattare nei loro confronti un cortocircuito narrativo (e forse anche etico) che li rovescia in burla, in boutade, in barzelletta. Se anche può sembrare che tutto proceda tra sottili giochi di ammiccamento e di strizzate d’occhio verso il materiale mediatico, non c’è nessuna dichiarazione di coappartenenza o di parentela con esso. Anzi, lo stesso artista rileva che il suo obiettivo è quello di conseguire una sorta di ribaltamento o di sovvertimento degli abituali codici comunicativi. Dov’è infatti più il discrimine tra reale e inverosimile, tra ordinarietà ed eccesso, tra convenzione e distacco critico-ironico? Sempre lo stesso Congost è costretto a confessare: “So quello che non è (il video), ma come posso spiegare quello che realmente è?” Tutti gli ordini della realtà qui si confondono, come nel giallo di Bryan Singer, The usual suspects, dove l’intera storia si rivela, alla fine, come la proiezione di una menzogna del protagonista e il bene e il male si scambiano i ruoli. Anche ne La Mala Pintura è il giovane che sta usando MySpace a catturare e a cancellare sul suo display il presunto assassino. Come dire: iperfinzione, ovvero: ciò che si vede non è mai esistito, nemmeno sul piano della finzione. Del resto, ancora Congost parla di un forsennato ricorso alla “teatralità”. “Ogni sequenza – scrive – ha una diversa soluzione formale, in rapporto a ciò che volevo raccontare. Ho costruito delle scenografie false, ho impiegato dei fondi digitali, ma ho ripreso anche dei luoghi veri”. Il suo è tutto un effetto di vertigine, di raddoppiamento, di metamorfosi. Ed è come se rispondesse in maniera omeopatica ai tre inquietanti e farfuglianti maestri del Barocco, opponendo alle loro stesse parole che esaltano l’età dell’Oro, uno straripamento di forme, di travestimenti, di sviamenti altrettanto barocchi.
In mostra sono esposte pure alcune foto tratte dal video o scattate durante le riprese o anche foto colte nel backstage della lavorazione. “L’idea è quella di offrire un’estensione del video”, di dilatarne la capricciosa e insieme ilare brutalità, ma soprattutto quella di far vedere ciò che normalmente sfugge alla vista (come i dispositivi mediatici all’interno del video): ossia ciò che si sottrae a causa del passaggio troppo veloce dei fotogrammi o ciò che rimane alle spalle, nascosto, simile ad uno scarto. Una visione che smaschera (o libera?) ciò che, ancora una volta, resta intrappolato dentro (o dietro) la storia. Scarto, dunque, inteso non come forma di perdita, di privazione, ma come oggetto (immagine) preziosa, in quanto coglie e mette a fuoco le “facce” topiche, fondamentali del procedimento. Scarto, come elemento di alterità, che produce nel noto un senso di inedito, di valore “iconico”.
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